IL SENSO DI APPARTENENZA E DI IDENTITÁ

Il senso di appartenenza deriva dal sentirsi socialmente accettati, dal far parte di un gruppo che condivide determinate caratteristiche e dalle capacità, attuate attraverso e con il gruppo, di superare gli ostacoli, assumersi rischi appropriati e, soprattutto raggiungere obiettivi preclusi al singolo individuo.
Il senso di appartenenza influenza la resilienza anche individuale oltre che di gruppo rispetto all’impatto dei fattori di vita stressanti, rafforza le capacità di coping e il senso di autoefficacia, cosa che comporta un aumento generale dell’autostima.
I fattori che influenzano il sentirsi appartenenti a un gruppo sono:

  • La vicinanza fisica, geografica
  • La somiglianza, in termini di idee, sentimenti, interessi, credenze, valori, stili di vita o bisogni
  • L’identificazione con gli altri appartenenti al gruppo o con le finalità del gruppo stesso
  • La capacità di condividere la diversità
  • La convinzione che l’unione fa la forza
  • La capacità d’integrare la propria diversità con quella altrui
  • Valorizzare la complementarietà
  • Considerare il gruppo come molto di più della somma degli individui che lo compongono

Un gruppo è costituito da un certo numero di individui che interagiscono l’uno con l’altro con una certa costanza. Questa costanza nell’interazione tiene insieme i partecipanti, dando vita a una identità di gruppo. Il gruppo nel suo insieme non va considerato come la semplice somma dei componenti, bensì si possono sfruttare sinergie per cui due più due può fare anche 6 e non sempre quattro come in matematica.
Un gruppo sociale è caratterizzato non tanto dal grado di somiglianza tra i suoi componenti ma piuttosto dalla capacità di fondersi nell’identità del gruppo, senza rinunciare alla propria identità, ma con la consapevolezza che un gruppo, e per estensione ancor di più un popolo, possiede una forza e capacità impensabili per gli individui a sé stanti.

Attaccamento e intimità psicologica: dal bisogno alla paura

In momenti particolarmente stressanti la maggior parte delle persone esprime il bisogno di una forte vicinanza emotiva.
In queste circostanze, il contatto, uno scambio di sguardi o anche solo la presenza fisica di qualcuno ci permette sia di alleviare la tensione e lo stato di malessere da cui sentiamo di essere sopraffatti, sia di sentirci meno soli.
Ma, a fronte di questi bisogni di supporto ed intimità psicologica, molte persone non riescono a lasciarsi andare e a ricercare in profondità delle relazioni significativamente autentiche.
Cosa succede e perché alcune persone sembrano avere paura della vicinanza emotiva dell’altro?
Questa paura sembra essere molto comune e non legata solo al tipo di relazione che costruiamo con gli altri.
La vicinanza emotiva e l’intimità psicologica sono delle esperienze soggettive profonde e molto complesse che richiedono competenze prosociali e predisposizioni individuali da mettere in campo nella relazione con l’altro.
È proprio all’interno di una relazione intima che noi scegliamo di metterci a nudo con i nostri punti di forza ma soprattutto con quelli di debolezza, mostrando e condividendo parti di noi non solo poco visibili, ma, spesso ben celate per paura di esporci troppo e di renderci vulnerabili agli occhi dell’altro, (e quindi indifesi davanti agli attacchi), con il rischio di perdere la nostra identità, spesso faticosamente costruita e preservata.
Ricercare e mantenere una vicinanza emotiva richiede, allora, un processo di reciprocità e di fiducia che ci possa consentire di donare agli altri ciò che di più prezioso e “segreto” ci appartiene, anche con il pericolo di perderlo, vederlo calpestato o addirittura rifiutato.
Ma qual è l’origine della paura dell’intimità e quali le conseguenze?
Una componente centrale nella capacità di avere relazioni emotive significative è strettamente correlata alle prime relazioni ed in particolare all’aver sperimentato un attaccamento sicuro con le principali figure di accudimento.
È proprio la disponibilità del caregiver, una buona responsività intesa come la capacità di rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino sintonizzandosi emotivamente con lui offrendogli cura, calore e protezione che costituiscono gli ingredienti che pongono le basi per una sana intimità psicologica ed un buon senso di sicurezza, necessari per lo stabilirsi di relazioni future stabili e per un adeguato sviluppo di personalità.
Di contro, la mancanza di una base sicura in grado di offrire un’esperienza protettiva di vicinanza emotiva ed un’intimità rassicurante può costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di relazioni percepite come minacciose e pericolose per l’individuo.
In particolare, esempi di relazioni instabili con le figure di attaccamento che possano esitare in paura di intimità hanno a che fare con specifiche caratteristiche dei caregiver, quali:

  • invadenza ed intrusività eccessive tanto da rendere minacciosa l’esperienza della vicinanza emotiva per la vita dell’individuo che, di conseguenza, prende le distanze da tale situazione come strategia di sopravvivenza;
  • eccessivo controllo ed imposizione di regole rigide che non consentono di vivere le relazioni in maniera libera e spontanea;
  • mancanza di empatia e di “compassione” che non permettono all’individuo, sin dalle prime fasi di vita, di interpretare e dare il giusto significato alle esperienze simboliche ed affettive che si susseguono;
  • imprevedibilità ed ambivalenza del legame e delle risposte fornite al bambino che oscillano ai poli opposti generando uno stato confusivo da cui ci si può difendere spesso solo acquisendo una distanza emotiva dai caregiver e dalle future relazioni.

In queste circostanze, spesso, davanti alle risposte incostanti, trascuranti o controllanti dei caregiver, il bambino impara, dunque, a re-agire rinunciando all’esperienza dell’intimità psicologica, a scapito dell’autenticità delle relazioni da cui prende le distanze emotivamente in nome della propria salute psicologica!

Relazioni troppo sbilanciate verso gli altri

«Faccio di più per gli altri che per me stesso…»

La sensazione di avere relazioni fortemente sbilanciate è più comune di quanto si pensi.

Per relazioni sbilanciate, s’intende la dinamica per cui non ci si sente ricambiati rispetto a ciò che si dà in un rapporto.

Al contrario, l’impressione è quella di fare sempre di più rispetto

  • al proprio partner;
  • ai propri amici;
  • ai propri colleghi;

e così via.

Di per sé, risulta già interessante un dato, quello accennato all’inizio dell’articolo:

Molte persone avvertono questa percezione, più di quanto sembri.

Questa evidenza suggerisce due spunti

  • della sensazione che le proprie interazioni con gli altri siano sbilanciate si parla poco;
  • è una “meccanica” strettamente relazionale: esistono molte persone di cui ci riuscirebbe difficile pensare che sentono questo sbilanciamento, all’interno dei propri legami.

Il secondo punto impone una riflessione fondamentale:

La sensazione di avere relazioni sbilanciate ha a che fare col proprio modo di vedere le relazioni.

Questa considerazione non esclude affatto che, nella realtà, si verifichi davvero questo disequilibrio relazionale.

L’attenzione però va riportata su se stessi.

Vediamo in che senso.

«Perché sento che le mie relazioni sono sbilanciate?»

Si può dire che a questa dinamica di sbilanciamento di apporti finiscano per partecipare due “attori”:

  • l’altro (o gli altri…);
  • se stessi.

È piuttosto facile rendersi conto di come le persone intorno finiscano per “appoggiarsi” e far fare tutto all’altro.

Meno facile è percepire il contributo soggettivo a questo tipo di dinamica:

E se fossi io a mettere in moto determinati comportamenti?

In psicoterapia succede spesso che le persone che avvertono costantemente questo sbilanciamento, comincino a intuire quanto di “personale” c’è in questo meccanismo.

Vale a dire: senza dubbio esistono persone che trovano particolarmente comoda la possibilità di poter delegare

Ma la “scelta” del delegato avviene quasi sempre sulla base delle caratteristiche della persona investita di quel ruolo.

Questo significa che le persone che sentono sbilanciate le proprie relazioni, sono spesso persone che si prestano, non sempre consapevolmente, a questo tipo di dinamica relazionale.

È un’esperienza frustrante

  • sentire che gli altri fanno costantemente affidamento su di noi, appesantendoci con richieste pressanti;
  • sentire che, in fondo, non si riesce a fare a meno di assecondare queste richieste.

Ma è proprio a partire da quanto di “personale” è investito in queste relazioni monodirezionali, che è possibile cominciare a riflettere su un possibile cambiamento.

Psicoterapia e relazioni sbilanciate

Quello che è possibile ottenere da una psicoterapia, in questo caso, è individuare la ragione profonda del proprio mettersi sempre al servizio degli altri.

Il “motivo interiore” che porta a sacrificare le proprie esigenze e a mettere al primo posto quelle di chi ci sta intorno.

È come se la caratteristica di fare di più per gli altri di quanto facciano loro risponda a un bisogno personale inconsapevole.

Un esempio può essere la necessità di porsi sempre in una posizione di “credito”, e mai in una posizione di “debito”.

Per molte persone è difficile pensare di dover qualcosa all’altro.

Al contrario, ci si sente molto più sereni nell’essere dalla parte di chi dà, invece che ricevere.

Ragionare sulle motivazioni profonde che ispirano questo tipo di rapporto con l’altro significa

  • ripercorrere la propria storia personale;
  • riflettere sulle emozioni, i bisogni, le paure che si associano a questo tipo di relazione.

Si tratta di un lavoro difficile da spiegare a parole perché unico e diverso per ogni persona, così come uniche e diverse sono le esperienze di vita che hanno costruito un certo tipo di atteggiamento nei confronti del mondo.

Sentirsi condannati a relazioni sempre sbilanciate è un fardello pesante da sostenere per tutta la vita.

Lavorare in direzione di un cambiamento, o perlomeno di un ammorbidimento di questo rigido stato delle cose, può essere importante per recuperare una porzione di serenità autonegata da troppo tempo.

La scissione come difesa dell’Io

Quale funzione svolge la scissione? Possiamo rintracciare un suo utilizzo anche all’interno di fiabe, racconti e opere letterarie?

La scissione è un termine che deriva dalle scuole di pensiero classiche – psicoanalitiche o psicodinamiche – e si riferisce ad un meccanismo di difesa dell’Io mediante il quale un’entità abbastanza complessa non può essere accettata dalla coscienza nella sua interezza perchè contiene sia aspetti che sono accettabili per una persona ma anche inaccettabili.

Le personalità ‘sottosviluppate’, soprattutto quelle di tipo borderline, hanno difficoltà ad incorporare nella coscienza aspetti apparentemente contraddittori della stessa cosa o persona.

Quindi, separano o ‘scindono’ inconsciamente gli oggetti in due categorie, vedendo il lato buono di una persona o cosa come la parte che trovano accettabile ed il lato ‘cattivo’ della persona o cosa come la parte che trovano dolorosa o inaccettabile.

È molto più che vedere solo un lato positivo ed uno negativo di tutto. In realtà ‘dividono’ una singola entità in due realtà opposte, concettualizzando ad esempio una madre come avente un lato sia gentile che terrificante.

Di conseguenza, spesso si alternano tra eccesso di idealizzazione e svalutazione della stessa persona.

Quindi, i gradi esterni di scissione interna possono provocare una frammentazione del sé attraverso meccanismi come la dissociazione o anche la formazione di più personalità.Pubblicità

La scissione, utilizzando una prospettiva diversa, può essere anche letta coma la divisione e la polarizzazione di credenze, azioni, oggetti o persone in buoni e cattivi concentrandosi selettivamente sui loro attributi positivi o negativi.

Questo è spesso visto in politica, per esempio, quando i democratici ritraggono i propri antagonisti come egoisti e di mentalità ristretta, mentre gli oppositori li descrivono come ipocriti e ruffiani.

Altri esempi di scissione includono la persona profondamente religiosa che pensa che gli altri siano o benedetti o dannati, il figlio di genitori divorziati che idolatra un genitore mentre sfugge all’altro, il paziente ospedaliero che vede i medici come utili e laboriosi ma gli infermieri come pigri ed incompetenti e così via.

Nell’opera di Salinger, Catcher in the RyeHolden Caufield, il protagonista, è disorientato dall’età adulta.

Per affrontare la paura di diventare un adulto un giorno, pensa a questa fase della vita come ad un mondo di cose completamente brutte come la superficialità e l’ipocrisia, mentre l’infanzia è concepita come un mondo di cose completamente buone come l’innocenza, la curiosità e l’onestà.

Dice alla sorella minore, Phoebe, che immagina l’infanzia come un campo idilliaco di segale in cui i bambini giocano e giocano, e se stesso come il “raccoglitore del segale” che sta sul bordo di una scogliera, catturando i bambini che minacciano di gettarsi – e presumibilmente morire/diventare adulti.

Comunque, continuo a immaginare tutti questi ragazzini che giocano ad un gioco in questo grande campo di segale e tutto il resto. Migliaia di ragazzini, e nessuno è in giro tranne me. E sono in piedi su una scogliera impazzita. Quello che devo fare è catturare tutti se iniziano a scavalcare la scogliera, voglio dire se corrono e non guardano dove stanno andando, devo uscire da qualche parte e catturarli. Questo è tutto ciò che farei per tutto il giorno. So che è pazzesco, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe davvero essere”.

Anche Miguel de Cervantes usa la scissione per ottenere un grande effetto comico mentre il suo protagonista, il sedicente Don Chisciotte della Mancia, ci guida attraverso un mondo che ha ripopolato con eroi e criminali, principesse e prostitute, giganti e nani – con gli eroi come più grandi, i cattivi più crudeli, le donne le più belle e virtuose, e così via.

Abbi cura di te”, esclama Sancho Panza, contadino trasformato da Don Chisciotte, “quelle cose laggiù non sono giganti, ma mulini a vento”.

La scissione diffonde l’ansia che deriva dalla nostra incapacità di cogliere le sfumature e le complessità di una data situazione o stato di cose, semplificandole e schematizzandole, e rendendole così più facili da pensare.

Allo stesso tempo, rafforza il nostro senso di sé come buono e virtuoso demonizzando e facendo da capro espiatorio a tutti coloro che non condividono la nostra identità e la nostra prospettiva.

Una tale compartimentalizzazione degli opposti ci lascia con un quadro chiaramente distorto della realtà ed una ristretta gamma di pensieri ed emozioni.Pubblicità

Influisce sulla nostra capacità di attrarre e mantenere relazioni, non solo perchè è noioso e disdicevole, ma anche perchè può facilmente capovolgersi, con amici e amanti che vengono considerati come virtù personificate contemporaneamente e poi come vizio personificato in un altro.

La scissione si verifica anche nei gruppi, quando i membri del gruppo sono visti come aventi attributi positivi, mentre quelli di un altro gruppo come aventi attributi negativi – un fenomeno che contribuisce al pensiero di gruppo e scivola facilmente nella xenofobia.

Infine, vale la pena sottolineare che sia le fiabe che la Chiesa presentano una serie di scissioni acute, per esempio, eroi e malvagi, il bene ed il male, il paradiso e l’inferno, angeli e demoni, santi e peccatori.

Oltre a questo anche i più grandi personaggi della letteratura, come l’Achille di Omero, l’Antonio o la Cleopatra di Shakespeare, contengono aspetti buoni e cattivi, tra i quali però vi è un intimo legame.

Il Blocco Psicologico. Come risolvere il problema

Questo paragrafo è dedicato al blocco psicologico. Vedremo insieme come nasce, come si struttura, e come si può risolvere il problema.

Hai mai provato questa sensazione?

✔ Conduci una vita apparentemente normale, ma senti di “non farcela” in un determinato contesto. Ad esempio, potresti avere una vita soddisfacente a lavoro, con gli amici, ma non riuscire a trovare un partner. Oppure potresti avere un partner, ma non riuscire a superare gli esami all’università. E così via.

✔ È come se ti trovassi davanti un muro e non riesci a vedere una reale via d’uscita. Hai provato più volte a scavalcare questa barriera, ma ti senti sempre lì, fermo al punto iniziale.

✔ Ti sei quindi convinto che c’è qualcosa di sbagliato in te (e magari ti è stato detto anche da persone care), ti comincia a salire l’ansia anche in situazioni apparentemente immotivate, comincerai ad evitare quelle esperienze che sai già che potrebbero essere fallimentari.

✔ Vivi da tanto in una situazione di insoddisfazione generale.

✔ Pensi che sei l’unica persona ad avere questo tipo di problema.

✔ Sei talmente convinto della tua “patologia” che non ti viene neanche in mente di chiedere aiuto.

Se hai risposto “si” ad almeno tre di queste affermazioni, molto probabilmente stai vivendo un blocco psicologico.

Quando si finisce dentro a questa trappola abbiamo la reale sensazione di girare a vuoto e non trovare una via di uscita.

L’unica cosa che riusciamo a fare è ripetere sempre gli stessi schemi disfunzionali. Ma, si sa, se un comportamento non ha funzionato in passato, probabilmente non funzionerà nemmeno adesso.

Cosa è un blocco psicologico

 Il blocco psicologico è un vincolo creato inconsapevolmente da noi stessi, che ci impedisce di raggiungere gli obiettivi preposti.

Di solito si struttura in tenera età e viene fuori quando siamo adulti.

A volte quello che blocca è qualche convinzione negativa su noi stessi, che ci limita e ci fa sentire a disagio. Fare “quella cosa”, probabilmente, ci metterebbe ancora più di fronte a queste nostre credenze. Ed ecco che il blocco si alimenta.

La notizia positiva è che non nasciamo con questi blocchi. Quindi, come abbiamo appreso uno schema, potremmo apprenderne altri più funzionali.

Quali sono

Ci sono tantissimi blocchi, di diverse forme e dimensioni. Ne cito i più diffusi.

➡ Blocco dello studente.

Ci sono esami che non riesci a superare. Vai all’università, ma hai la sensazione di nausea e malessere. Ti senti molto agitato al solo pensiero di aprire il libro. Ti costringi a studiare, passi ore davanti al libro senza capire quello che leggi, e rileggendo la stessa frase tante volte. A volte ti auto-punisci: eviti di uscire, di fare attività piacevoli perché non sei riuscito a studiare nulla.

➡ Blocco del perfezionista.

Aspetti sempre che tutto sia perfetto prima di cominciare a fare qualcosa. Più ti impegni a fare le cose perfettamente, più la meta ti sembra lontana. Il risultato è che lasci tutto incompleto.

➡ Blocco dello sportivo.

Ti alleni per mesi, segui una dieta efficace, hai tutti i requisiti per vincere. Ma quando arriva il momento della gara, della competizione, qualcosa ti blocca e non riesci ad andare avanti.

➡ Freno del timido.

Situazioni come parlare in pubblico, metterti in mostra ti imbarazzano a tal punto che, quando ti trovi di fronte a questi contesti, il tuo corpo si paralizza e non ti permette di fare più niente.

➡ Blocco del musicista.

Suonare è la tua più grande passione. Hai dato anima e corpo per quello strumento, hai passato giornate intere chiuso in camera a suonare. Ma adesso qualcosa ti impedisce di andare avanti.

➡ Blocco emotivo.

Sei bloccato nelle emozioni, non riesci ad esprimerti davanti al partner ed a farli capire cosa vorresti. Oppure non riesci ad avvicinarti alle persone che ti piacciono.

Possibili cause del blocco psicologico

Le cause legate ad un blocco psicologico sono infinite, e diverse da persona a persona. Le più comuni sono:

Inesperienza.

Prima di pensare di avere un blocco psicologico, guarda se effettivamente hai le competenze per raggiungere l’obiettivo che ti sei posto oppure no. A volte è proprio la scarsa conoscenza dell’argomento che porta a bloccarci. Per esempio, una persona vorrebbe tenere dei dibattiti in pubblico, ma è frenata perché non conosce a fondo l’argomento proposto.

Bassa autostima.

A volte ciò che ci blocca sono le nostre credenze negative: siamo talmente convinti di sbagliare, che fare quella cosa sarebbe sinonimo di fallimento. Per saperne più su questo argomento clicca qui.

Trauma.

Capita che abbiamo avuto una brutta esperienza in passato. Probabilmente non è la stessa esperienza che ci blocca adesso, ma può darsi che la sensazione provata è simile. Se così fosse, una parte di noi ci starebbe difendendo proprio da quella sensazione sgradevole. Per esempio: in passato posso avere subito una umiliazione a scuola da un professore. Parlare in pubblico oggi mi potrebbe far contattare quella sensazione di umiliazione e fallimento provato allora. Per sapere cos’è un Trauma Psicologico clicca su questo link.

Troppe aspettative.

Sento spesso dire frasi del tipo “finché dipingevo per passione, andava tutto bene. Il problema è arrivato quando mi hanno commissionato dei quadri” oppure “andava tutto bene quando lo sport era una passione. Adesso che ne ho fatto un lavoro, sono peggiorato”. Quando sentiamo troppe aspettative da parte di terzi (o di noi stessi), il rischio è il blocco. Probabilmente per la paura di deludere, o per la paura di essere giudicati e quindi rifiutati.

Idealizzazione.

Mi sono trovata davanti casi in cui la persona si confrontava con modelli esterni o interni inesistenti. Una ragazza che era bloccata all’università si sbloccò nel momento in cui cominciò a frequentare le lezioni, quindi a capire che gli altri studenti erano persone come lei, senza troppe pretese. Prima di ciò, lei pensava che la media era superiore a quello che effettivamente era in grado di fare.

Mappe mentali consolidate.

Per mappe mentali intendo dei modi personali di risolvere un determinato problema. Una mappa mentale potrebbe essere, per esempio, chiedere aiuto appena siamo di fronte ad un problema. Se invece, la nostra mappa mentale è quella di scappare di fronte ad un problema, appena si presenterà qualcosa di difficile questa si attiverà, bloccandoci.

Paura.

Pensa agli animali… quando si fingono morti?? Quando hanno paura di essere attaccati da un predatore. E così facciamo noi. Se sentiamo un forte pericolo (probabilmente la sensazione di pericolo è reale, quindi inconscia, ma il pericolo effettivamente non c’è) ci blocchiamo e non riusciamo ad andare avanti. In questo senso il blocco arriva per difenderci da qualcosa che riteniamo minaccioso. Bisognerà dare un nome a questa minaccia.

Come superare un blocco psicologico

🔴 Comincia a renderti conto che il blocco è reale e che ti sta limitando. Non nasconderti dietro le parole “ma a me non interessa”. Se il blocco esiste è perché ad una parte di te quella cosa interessa molto! Non ammetterlo prolungherebbe soltanto l’attesa. Questo primo passo è difficile e doloroso al tempo stesso. A volte queste credenze si radicano così a fondo che non riusciamo più a distinguere ciò che siamo e ciò che è il nostro condizionamento.

🔴 Rendi cosciente la credenza negativa. Jung affermava “rendi cosciente l’inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita e tu lo chiamerai destino”. Quindi pensa al tuo blocco, ascoltati, e poni l’attenzione sincera su ciò che ti dici di negativo. Se capisci questo, sarà tutto in discesa.

🔴 Rivolgiti ad uno psicoterapeuta. Ricorda che un blocco non va via finché non viene compreso a pieno perché, come altri sintomi, ci sta difendendo da qualcosa. Abbatterlo senza capirne il motivo significherebbe andare nel mondo senza protezione, combattere senza scudo, stare sotto il sole cocente di agosto senza ombrellone.

EMDR: una terapia efficace per superare il blocco psicologico

  • Grazie alla terapia EMDR avrai la possibilità di entrare più in profondità con quelli che sono i tuoi vissuti e le tue emozioni.
  • Potrai vedere in faccia il blocco, capire effettivamente cosa ti sta comunicando e qual è il fine secondario.
  • Insieme andremo ad elaborare tutte le situazioni in cui ti sei sentito bloccato, faremo collegamenti col presente e col tuo passato.
  • Avendo una visione più consapevole della tua vita vedrai effettivamente quali sono i tuoi limiti e le tue risorse.
  • Questo (e molto altro) ti permetterà di superare a pieno il tuo blocco e vivere una vita qualitativamente migliore!
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